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Perchégli abitanti di Masserisvengono chiamati CavallariLuisa Battistig racconta: Una volta un cavallo scappò da Idrsko. Un uomo di Masseris trovò il cavallo, quando stava pascolando sulla sua terra e lo portò nel paese. Alcuni dicono che il cavallo fosse tenuto nella stalla Valentarjova, altri che esso fosse custodito nella stalla Muhorova. Un giorno venne il proprietario del cavallo e disse all'uomo che glielo rubò: "Non ci sarà alcuna inconvenienza, se mi restituisci il cavallo." Prima di andarsene il padronefece un incantesimo al cavallo. Esso divenne caparbio come un muloe non si spostò più. Per questo motivo gli uomini di Masseris, grandi e forti, dovettero portarlo sulle spalle indietro, fino a Idrsko. Quando vennero a Prehod, prima di raggiungere gli stavoli che si trovavano a Njivice, il padrone del cavallo venne da loro e li ordinò di metterlo a terra. Dopo, egli picchiò il cavallo con un fiammifero ed esso iniziò a camminare. D'allora in poi gli abitanti di Masseris vengono chiamati Cavallari. |
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I bouquet per la festa dell'AssunzioneLuisa Battistig racconta:
In questi luoghi abbiamo un costume antico. In occasione della festa dell'Assunzione (il 15 agosto), che noi chiamiamo rožinca, si fanno i bouquet (pušlije; pušjace) con diversi fiori, i quali rappresentano tutto quello che Maria aveva nel cuore, nell'anima: l’eupatoria chiamata il fiore della Vergine Maria, il tanaceto, l’eringio, l’assenzio, l’erba di S. Giovanni, l’achillea, la centurea minore, la ruta comune, l’aneto selvatico e la menta selvatica.
Quando ero piccola, trascorrevo l’estata sul pascolo sotto la cima del monte Matajur, dove pascolavano le mucche. Ogni anno, prima dell’Assunzione, mia madre veniva sul pascolo per raccogliere i fiori che crescono solo sui monti. Li raccoglieva anche per le altre donne del paese, le quali mettevano i fiori nei propri bouquet. Il giorno dell’Assunzione c’era la processione. Gli uomini portarono l’immagine della Vergine Maria, dietro di loro camminavamo noi bambine (čečice), tutte vestite di bianco. Ognuna portava un piccolo cestino con i fiori, che venivano sparsi per terra. Le donne portavano i bouquet, che venivano posati sulla soglia della chiesa per essere benedetti dal parroco. Dopo la messa, le donne portavano i bouquet a casa, dove venivano appesi e fatti essiccare. Quando c’era la grandine e le persone erano preoccupate per la sorte del loro raccolto, si prendeva dal fornello il carbone, che si metteva per terra, davanti alla casa. Sul carbone si mettevano i fiori dei bouquet. Anche nel giorno dei Re Magi si faceva il fumo in questo modo, per scacciare tutte le cose cattive e per auspicare un buon anno. La casa aveva un buon profumo poiché ogni fiore ha un odore particolare. |
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Falciare l'erba sul monte KolovratAntonio Cicigoi racconta:
A Drenchia e in alcuni paesi vicini hanno una falce particolare. Uno dei manici è girato dall’altra parte. Per questo motivo la falce deve essere tenuta in un modo particolare, dal basso verso l’alto. Da noi, nel paese di Lase abbiamo una falce normale. Io falciavo già quando ero un ragazzo di otto o nove anni. Avevo una falce piccola e andavo con mio padre sul Kolovrat, ma arrivarci non era facile, la strada era lunga. Per via del confine non si poteva percorrere la strada più breve. Dovevamo raggiungere il valico di confine a Solarie e poi percorrere la strada fino al nostro prato. Camminavamo per tre quarti d'ora. Quando alle sei di mattina aprivano il valico, noi eravamo già lì ad aspettare, poiché volevamo raggiungere il prato il più presto possibile. Facevamo colazione con pane, salame e formaggio. Per pranzo le donne portavano in una scodella la polenta tagliata a pezzi e il latticello. In un recipiente di legno chiamato lempa portavamo con noi l'acqua, che riempivamo già di mattina nel paese. Abbiamo bevuto sempre tutto, restavamo persino senza acqua. Sì, allora il Kolovrat era ancora tutto falciato! |
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Lo sviluppo cambiò i ferri da stiroOddo Lesizza racconta:
Nel corso del tempo i ferri da stiro, che nel nostro paese Oborza vengono chiamati piegliči, sono cambiati molto. All'inizio, quando si mettevano ancora a scaldare sul fornello (šporget), erano fatti interamente di ferro. Il manico però scottava e doveva essere preso con uno straccio. La conseguenza logica era un ferro da stiro il cui manico era rivestito di legno. In seguito i ferri da stiro avevano il manico rimovibile. Si usava adoperare due ferri da stiro, uno veniva scaldato, con l’altro invece si stirava. Quando il ferro da stiro si raffreddava, se lo metteva a scaldare, mentre il manico veniva posizionato sull'altro ferro. Questi ferri da stiro potevano essere anche molto pesanti. Quelli usati, per esempio, negli ospedali per stirare le lenzuola potevano pesare anche dieci chilogrammi. Dopo comparvero i ferri da stiro in cui si metteva il carbone, ma purtroppo dai lati usciva il fumo e potevamo sporcare il tessuto. Anche a casa nostra usavamo questo tipo di ferro da stiro. Nella mia collezione ho anche i ferri da stiro a petrolio. Essi permettevano di regolare il calore con una valvola. Nessuno a Oborza aveva questo tipo di ferro da stiro. In seguito sono comparsi i ferri da stiro elettrici. |
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La mostra dei santiniGabriella Cicigoi racconta:
Nel 2009 l'associazione Kobilja glava ebbe l'idea di preparare una mostra di ciegelci (santini). Io e mia sorella ne avevamo alcuni, ma li abbiamo chiesti anche a mia nipote (suoča) e ad altre famiglie. In molti hanno partecipato a questa raccolta. Parecchi esemplari sono stati raccolti anche da Oddo Lessiza e da un’altra persona che vive vicino a Tricesimo, che ha portato molti santini antichi. Nel comune di Cras si trova una grande sale e la abbiamo preparato una bella mostra e anche un catalogo dei santini raccolti. La mostra è piaciuta molto e le persone hanno portato anche altri santini. Il santino più antico risale al 1911. Alcuni santini provengono dalla Boemia e dalla Slovacchia. In passato, infatti, gli abitanti del luogo andavano a falciare all’estero, a vendere vestiti e stoffe, portando a casa soldi, spesso anche santini, immagini, oppure statuine dei santi e della Vergine Maria. |
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La deveticaUna volta nel nostro paese, Oznebrida, si preparava la devetica, la novena di Natale, in cui nei nove giorni precedenti il Natale si pregava per le case, ogni giorno in un'altra. Mio nonno, che andava a falciare in Boemia, portò da quei luoghi Maria. Circa 140 anni fa, infatti, nove case hanno dato i soldi per comprare una bella immagine di Maria per usarla durante la novena. La Madonna fu messa in una cornice di legno, con il vetro davanti, e il tutto fu posto in una casetta di legno. Essa fu costruita da mio cugino (kužin), che era un falegname (tišler) di Iusceco. In occasione della novena, questo piccolo altare fu portato ogni giorno in un’altra casa, nella quale gli abitanti pregavano insieme il rosario (rožar). Dopo, l’altare rimase per altri quaranta giorni, fino alla candelora, nella casa in cui si trovava l’ultimo giorno precedente il Natale. L’altare fu decorato anche con fiori e candele. Quest’abitudine era ancora viva negli anni in cui io ero bambino. L’altare rimase custodito a casa nostra. Nell’associazione Kobilja glava abbiamo avuto l’idea di ricordare questa bella abitudine e abbiamo deciso di farla rivivere. Dato che d’inverno nel paese vivono poche persone (in modo permanente, solo tre), partecipano a questa iniziativa anche i paesi vicini. In questo modo noi ci incontriamo ogni giorno in un'altra casa, cantiamo, pregiamo il rosario e alla fine vengono serviti dolci, biscotti, la gabbana e qualcosa da bere. |
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Il focolare (črna kuhinja) di Prossenicco Il focolare di Prossenicco si trova nel pianterreno di una casa a schiera, stretta e unifamiliare. L'arredamento è poco: un tavolino basso, una mensola con del vasellame, nell’ultima parte della stanza si trova invece un focolare basso, largo e lungo meno di un metro. Su di esso è appeso, con una catena, un pentolone. Questo focolare, molto elementare e leggermente rialzato, rappresenta il pezzo più interessante della črna kuhinja. Il focolare è spostato, ma non appoggiato, al muro di fronte all’entrata e delimitato, da quattro parti, con blocchi di pietra. Questo tipo di focolare basso fu frequente prima dell'Ottocento, quando divenne sempre più alto, fino a raggiungere l’altezza di un tavolo. Questo tipo di focolare fu presente, nelle abitazioni più modeste, ancora nel Novecento. Un focolare simile a questo è conservato anche nel vicino paese di Robidišče. Il focolare non ha né una cappa di aspirazione né un camino. Il fumo poteva uscire solo tramite una piccola finestra reticolata, oppure tramite la porta aperta. Per via del fumo i muri, il soffitto e il suolo erano neri, il che assegnò il nome a questo tipo di cucina (črna kuhinja, cucina nera). Sopra la cucina si trovava la stanza da letto, che era accessibile per delle scale esterne. Nella stanza non era possibile evitare il fumo, che passava tramite le assi del pavimento. Una scala abbastanza corta portava dalla stanza fino a una stretta soffitta. L'abitante del luogo Evelina Melissa racconta che quest’abitazione era stata usata fino al 1990. Questo sembra quasi incredibile per gli uomini di oggigiorno, dato che questa casa non ha né un bagno né dell’acqua corrente ed è illuminata da una sola lampadina. La proprietaria della casa Marija Miscoria, che gli abitanti del luogo chiamavano te stara Marija ta s te črne hiše (la vecchia Maria, quella della casa nera), nacque nel 1892. Era abituata a vivere secondo le vecchie usanze e non voleva cambiare il suo stile di vita neanche quando i tempi cambiarono. Nel pentolone sopra il focolare essa cucinava la polenta fino al 1990, quando la vecchiaia la costrinse ad andare nella casa di riposo a Taipana. Morì nel 1992 all'età di 100 anni. Fu sepolta al cimitero di Prossenicco. Tipologia:
| | Testo | Racconta/canta/parla:
| | Evelina Melissa | Registrato da/chiede/annotato da:
| | Barbara Ivančič Kutin, Špela Ledinek Lozej | Luogo di registrazione:
| | Prosnid / Prossenico | Data di registrazione:
| | 7. 6. 2013 | Link:
| | http://as.parsis.si/zborzbirk/zbirka-it.a5w?zid=1028 | | | |
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Un giovane ragazzo vien per strada, una canzone di ProsseniccoNel museo di Prossenicco viene conservato un audio CD con il titolo Te so peli v Prosnidu (Queste furono cantate a Prossenicco). Nel 2013 Evelina Melissa, Franca Melissa di Prossenicco e Gianna Platischis di Platischis cantarono alcune antiche canzoni di Prossenicco. Una delle canzoni più amateera la ballata intitolata Po cesti pride mlad mladenič (Un giovane ragazzo vien per strada). La storia racconta un evento tragico che sarebbe accaduto tanto tempo fa a Prossenicco o nei suoi dintorni.
Un ragazzo vien per strada, Giovanin si chiama.
Un ragazzo vien per strada, Giovanin si chiama.
Per strada incontra una giovinetta e con lei ciarla.
Per strada incontra una giovinetta e con lei ciarla.
Cara mamma, sappia, io a danzare con lei andrò.
Cara mamma, sappia, io a danzare con lei andrò.
Giunti allabalera, lei a danzar con un altro va.
Giunti allabalera, lei a danzar con un altro va
I balli finiscono e lei dal suo va.
I balli finiscono e lei dal suo va.
Caro mio, non me ne volere, mio vicino è.
Caro mio, non me ne volere, mio vicino è.
Io non ho bisogno d'altri, a passeggio va con me.
Io non ho bisogno d'altri, a passeggio va con me.
Arrivati nella selva, lui il coltello fuori tira.
Arrivati nella selva, lui il coltello fuori tira.
Mia amata, inginocchiati, adesso la tua testa via va.
Mia amata, inginocchiati, adesso la tua testa via va.
Lui non la risparmia e il lato destro le trafigge.
Lui non la risparmia e il lato destro le trafigge.
Cara mamma, sappia, vostra figlia morta giace.
Cara mamma,sappia,vostra figlia morta giace.
Non voleva danzar con me, adesso morta è.
Non voleva danzar con me, adesso morta è.
Juhoj!
Tipologia:
| | Testo | Racconta/canta/parla:
| | Evelina Melissa, Franca Melissa. Gianna Platischis | Registrato da/chiede/annotato da:
| | Barbara Ivančič Kutin | Luogo di registrazione:
| | Prosnid / Prossenico | Data di registrazione:
| | 7. 6. 2013 | Link:
| | http://as.parsis.si/zborzbirk/zbirka-it.a5w?zid=1028 | | | |
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L’insegnante di LuseveraMraisa Cher racconta:
Qui, dove oggi si trova il museo, una volta c'era una latteria. Per molti anni fece il lattaio Pietro Sinnico, che per lungo tempo era anche sindaco. Egli visse tra il 1895 e il 1965. Sopra la latteria c’era la scuola, in cui insegnava sua moglie Cristina (nata nel 1898). I bambini la temevano un po’,poiché usava una bacchetta e faceva stare i bambini inginocchiati sui sassi. Non poteva che essere severa,poiché aveva più di quaranta bambini per classe. Insegnava tutto il giorno, mattina e pomeriggio! Anche quando era già molto avanti con la gravidanza, veniva ancora a scuola. Aveva nove bambini. Inoltre, aiutava il marito, che faceva il sindaco, sebbene avesse compiuto solo tre anni di scuola elementare. Lei gli scriveva tutto esi prendeva cura della contabilità e delle carte in genere. Per questo motivo a casa poteva contare sull’aiuto diuna domestica, una donna che cucinava e si occupava tutto il giorno dei bambini.
È interessante la storia su come Cristina fosse diventata un’insegnante. Delle persone erano venute a piedi da Udine a Lusevera per chiedere se qualcuno fosse così bravo a scuola da poter andare a studiare a San Pietro al Natisone. L’insegnante aveva detto che aveva due brave scolari, Cristiana e un’altra bambina. Le due erano cugine. Le loro mamme erano, infatti, sorelle. La mamma di Cristina aveva detto: «Vai, se vuoi andare». La mamma dell’altra bambina aveva invece detto: «Perché dovresti andarci? Tu sei una donna, dovrai avere dei bambini…». Per questo motivo era partita solo Cristina. Era la fine di ottobre e faceva molto freddo. Lei aveva preso i guanti che non coprivano le dita e le calze di lana fatte da sua madre. Poi erano partiti ed erano andati a piedi fino a San Pietro al Natisone, prendendo delle scorciatoie. Cristina era ritornata a casa solo alla fine dell’anno per poi ritornare a studiare. Dopo sette anni aveva finito le scuole e aveva iniziato a insegnareall’età di 18, 19 anni, all’inizio a Villanova delle Grotte, poi a Lusevera. Insegnò per quarant’anni. Nel 1954 andò in pensione e morì nel 1984 all’età di 86 anni. |
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La vitificazione a Gnidovizza Elio Qualizza - Kalut racconta:
A casa nostra custodivamo da sempre molti oggetti antichi, dopo il terremoto del 1976, quando le persone buttavano via le cose vecchie, ho invece iniziato a collezionarli. Alcune persone portavano gli oggetti direttamente a casa nostra. In questo modo ho raccolto moltecose: martelli, falci, rastrelli e altri arnesi, pentoloni per fare la polenta, varie pentole, arcolai… Ho anche delle veunike (macchine per rimuovere le erbacce dal grano), una trebbiatrice e altre macchine. Ho anche tutto l'occorrente per la viticoltura. In passato intorno a Gnidovizza c'erano molte viti, era tutto curato, oggi invece c'è solo il bosco! Allora nel paese eravamo duecentocinquanta persone, oggi invece ne siamo rimasti quindici. Mio padre era un contadino con molti terreni. Ogni anno producevamo trenta ettolitri di vino. All’inizio coltivavamo il tipo di vite amerikan, dopo invece abbiamo fatto l’innesto per produrre il merlot, che era un vino migliore e più forte poiché raggiungeva dodici gradi, mentreil vino amerikan solo 8, oppure 9 gradi. Avevamo anche del vino bianco, il mavrin (una vino antico) e la ribolla. Vendevamo il vino alle osterie. Quando c’era la vendemmia, i lavoratori raccoglievano intorno ai 40 quintali di uva, che veniva portata a casa con i cesti, messa nelle tinozze e pigiata con i piedi. Si occupavano della pigiatura nelle tinozze due persone per volta. Le tinozze più grandi venivano costruite direttamente in cantina, dato che le porte erano troppo piccole per portarle dentro. In seguito le tinozze venivano coperte con una tela e il contenuto veniva lasciato a fermentare. In seguito il vino veniva versato nei secchi di alluminio e poi nelle botti.Alla fine si pressavano le vinacce.La botte più grande, la quale poteva contenere ben 10 quintali, era così grande che abbiamo dovuto smontarla per poi rifarla nella cantina. Le altre botti erano molto più piccole. In occasione della festa di San Martino usavamo travasare il vino per eliminare il fondo: il vino limpido veniva messo nelle botti, il fondo veniva invece usato per fare l’acquavite. |
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Vigi e i suoi luminiValter Coren racconta: Vigi era un fabbro di Biacis e aveva una piccola bottega. Era una bottega piccola perché egli faceva oggetti piccoli con attrezzi piccoli. Faceva delle tagliole poiché in passato si usava catturare i ghiri e gli scoiattoli. Lui però era conosciuto soprattutto per i suoi piccoli lumini di latta, che ne compose a centinaia. Faceva però anche lumini più grandi. C’era anche un lumino che aveva all’interno una piccola scatola per l’olio e un lucignolo per poterlo accendere. Egli faceva anche dei lumini grandi con la lampadina dentro, che venivano accesi difronte alle case. Io me lo ricordo ancora, aveva le mani nere, tutte unte, dato che non usava né la matita né il pennello ma solo le dita. Tutti qui nella valle hanno un lumino di Vigi. Mi è venuto in mente che lui face questi lumini ed è come se lui avesse dato una piccola luce a tutti. Tutti ricordano Vigi per via di questi lumini e una volta l’anno, quando nel mio paese c’è la festa di Santa Gartea, la sera andiamo tutti con i nostri lumini fatti da Vigi in processione alla chiesa. È molto bello. Quando siamo andati a prendere le cose che lui aveva fatto, siamo rimasti molto sorpresi poiché dentro c’era tanto materiale da poter fare ancora mille lumini. Lui ha lasciato molto cose ed era un uomo religioso e buono. Tutti mantengono di lui, un bel ricordo. Abbiamo perso una persona molto preziosa per il nostro paese. |
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Il cerchio (obrč)Sandro Quaglia racconta:
Gli arrotini che viaggiavano per il mondo, andavano a cercare lavoro di casa in casa. Chiedevano se qualcuno aveva qualcosa da affilare. Come sapevano a chi dovevano restituire un coltello? Per aiutarsi usavano portare con sé un cerchio (obrč) su cui infilavano le forbici. Le prime forbici erano della prima casa, le seconde della seconda, le terze della terza e così via. Dopo aver affilato tutti gli oggetti, iniziarono a restituirli iniziando a toglierli dalla parte opposta, ossia le ultime forbici erano della prima casa e così via. In questo modo sapevano a chi dovevano restituire le forbici, i coltellini e i rasoi. Quest’utensile era chiamato obrč e ogni arrotino ne aveva uno. |
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Il pentolone (kotol) Sandro Quaglia racconta:
Nel nostro museo a Resia vengono conservati oggetti che testimoniano la vita della nostra gente. Ogni oggetto racconta qualcosa di bello, ossia come la gente viveva e cercava di stare bene. La gente andava a lavorare altrove. Sono particolarmente noti gli arrotini, ma c’erano anche quelli che riparavano i pentoloni e le pentole (i klomfarji), quelli che rimettevano a nuovo gli ombrelli e quelli che riparavano le finestre. Nel museo è possibile vedere un grande pentolone di rame (ramavi kotol), che in passato serviva per cucinare la rapa e anche altre cose. Chi ci ha dato quel pentolone? Ce lo ha dato un nonno che viveva a Idrsko. Mi ha chiamato e mi ha chiesto se volevamo un pentolone che egli aveva in casa. Perché ci voleva dare quel pentolone? Perché lo aveva riparato varie volte un resiano, un klomfar che andava a lavorare persino a Kobarid. Aveva il suo luogo come tutte le persone che andavano a lavorare e i contadini che avevano qualcosa da farsi riparare. Dato che il pentolone era continuamente sopra il fuoco, si rovinava. Iniziavano a farsi dei piccoli buchi che i klomfarji riparavano. Poi però, per via della seconda guerra mondiale, il klomfar non era più potuto andare là e il pentolone era rimasto a quella famiglia. Quell’uomo di Idrsko ci ha detto che sarebbe stato un bene tenere questo pentolone nella Resia, poiché era stato varie volte aggiustato da un klomfar, da Adam Madotin. È bello avere nella Resia qualcosa che proviene dalla Slovenia. Mostra come una volta la gente si aiutava, s’incontrava, si conosceva, lavorava e parlava la nostra lingua. Per questo motivo è una bella cosa custodire tutti gli oggetti che testimoniano come la gente viveva nella Resia e nel mondo. |
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Il faunjakRicardo Ruttar racconta:
In passato il fagunjak veniva usato per fare le torce (fagel). Era molto pesante, poiché era fatto di legno di corniolo. Quando ero ancora bambino, facevamo ancora queste torce e le usavamo in occasione del falò di San Giovanni. Noi bambini ci riunivamo. I fratelli maggiori sapevano già fare queste torce. Prima di fare il falò si tagliavano delle verga, che si potevano spaccare a metà. Le verghe con la corteccia venivano fatte essiccare in ombra e dopo venivano spaccate da una parte in diversi stecchi, che venivano battuti con il fagounjak. Nelle parti spaccate si metteva la resina ottenuta dagli alberi di abete. In questo modo la torcia era pronta. Queste torce bruciavano bene e davano luce. |
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La raccolta della legnaQuando eravamo piccoli, nella Benecia la legna da ardere era molto poca. Adesso c'è dappertutto il bosco, allora invece esso era ben poco. Era difficile ottenere abbastanza legna affinché la mamma, la mattina, potesse accendere il fuoco. Usavamo ardere dei piccoli rami, che la mamma chiamava bršče. I pezzi di legno erano molto pochi. Quando tagliavamo il bosco, vendevamo tutto il legno e a noi rimanevano solo rami piccoli, oppure quelli poco dritti. D'inverno, quando non avevamo abbastanza legno da accendere il fuoco, andavamo a cercare del legno con i cesti con le bretelle, le accette, i manaresi e le biette per spaccare i ceppi rimasti nel bosco. Il legno che avevamo ottenuto in questo modo lo portavamo a casa con i cesti. Questo legno si poteva prendere anche su terreni non di nostra proprietà, i piccoli rami e altre cose invece no. Sarebbe stato come rubare! Già quando andavamo a raccogliere i funghi, ci guardavamo intorno per cercare i ceppi, che spesso si trovavano su terreni difficili. |
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Vendevamo i rastrelli Bepa Bolovanova di Tercimonte di sotto racconta:
Noi eravamo una grande famiglia: c'erano la mia nonna, la mia mamma, il mio papà e poi dieci figli di cui io ero la penultima. Casa nostra veniva chiamata pri Bolovanovih. Vivevamo in miseria. Mio padre – Dio lo benedica! – non poteva comprarmi delle scarpe nuove, neanche in occasione della mia prima comunione. Le mie scarpe erano già tutte rovinate poiché erano state usate già da ben otto bambini. Non avendo i soldi mio padre, che si chiamava Giovanni Zanutt, ha deciso di costruirei rastrelli (grabje). Ha tramandato questa conoscenza anche ai bambini, ai quali disse: «Guardatemi e imparate! Se ci sarà la miseria, saprete fare i rastrelli!». Mio fratello Julijo era davvero bravo a farli. Lo chiamavano Sudat (Soldato) poiché si comportava come un vero soldato. Quando ha deciso di fare i rastrelli, li ha costruiti in una sola notta. Era giovane ed era molto svelto. Il giorno seguente aveva costruiti già dieci o quindici rastrelli e aveva tutte le mani callose. Era una vera fabbrica. Giulio mi ha detto: «Se vai a vendi i rastrelli, ti darò il denaro per una gonna». Questo voleva dire che mi avrebbe dato i soldi per comprare la stoffa per fare la gonna. Mi ha detto: «Più soldi ne ricaverò, più te ne darò». Con Guština siamo andate a vendere i rastrelli a Jeronizza. Ne abbiamo portati dieci o quindici. I rastrelli erano ancora freschi e perciò i chiodi cadevano per terra. Li abbiamo raccolti e ce li siamo messi in tasca (gajufa). Poco prima di arrivare a Jeronizzali avevamo inchiodatiusando un sasso. Poi siamo andate avanti… Anche qui vicino alla casa dei Štefici a Tercimonte di sopra, nel paese in cui mi sono maritata, c'era un certo Miha (nato nel 1899) che faceva i rastrelli. |
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Gli oggetti antichi di Taipana e dintorni Ivano Carloni racconta:
Una volta gli oggetti esposti nel museo venivano usati a Taipana e nei suoi dintorni. Dopo il terremoto del 1976, la gente buttava via le cose di cui non aveva più bisogno. Mio nonno (oćać) ha invece raccolto molte di queste cose poiché gli sembrava un peccato buttarle vie. Nella stalla ha ordinato uno spazio in cui piano piano si è formato un museo: filatoio (gurleta), pentoloni (kotoli), gabbia per gli uccelli (ščepula za tiče), zoccoli di legno (čokule), raganelle (krikje). Le raganelle si usavano durante la Pasqua. Il Giovedì Santo non si usava suonare le campane, ma fare rumore con le raganelle. Esse venivano usate da tutti, le più piccole dai bambini e quelle più grandi dagli adulti. Oggi si usano solo durante il Carnevale. Mio nonno aveva un laboratorio di falegnameria. Costruiva porte, finestre, letti ed anche manichi per le falci detti kosišča, strumenti per interrare le patate (žlicarji), slitte per portare la legna (žlk), trapani (sviederji), modelli per il burro (štampi za spuoju). Molti degli oggetti esposti nel museo sono stati fatti da mio nonno. |
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Scarpe nuziali nere Maria Moschitz racconta: Queste scarpe nere nuziali erano di mia nonna. Sono molto morbide, leggere e hanno i lacci, il tacco basso e le suole di cuoio con dei piccoli chiodi di legno. Sono foderate e molto comode. Assomigliano a degli stivali bassi. Il calzolaio che le ha fatte si chiamava Kicnov Franc di Campobasso. Egli era il nonno di Kicn e il suocero di mia nonna. Era un vero esperto. Tutte le spose di Campobasso, Ugovizza e di altri luoghi andavano da lui per farsi fare le scarpe.
La mamma mi ha raccontato di come egli, prendendo le misure a mia nonna, disse al figlio e alla sua amata: «Tone, per la tua sposa farò le scarpe più belle. A te, Lisa, auguro di portarle con gioia e a lungo».
Franc aveva ragione. Queste scarpe hanno oggi (2014) già 107 anni. |
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ŠčebelonDi solito le noci venivano custodite in un recipiente di legno e di forma ovale per prevenire che i topi le mangiassero. Il recipiente veniva chiamato con nomi diversi: bagulj, ščebelon, oppure balon. Una mia vicina lo lasciava appeso sotto il soffitto. Voleva preparare la gubanca (gubana) per festeggiare la Pasqua. Prese il recipiente, ma da esso caddero solo sassi. Chiamò i suoi ragazzi e chiese loro: «Chi ha fatto questo?». Per un po' rimasero zitti e dopo il più piccolo disse: «Maria, questo è sicuramente un castigo di Dio!». – «Che castigo di Dio?». – «Sì, voi dite sempre che se qualcuno fa qualcosa di sbagliato, Dio lo castiga.». – «Sì, va bene, ma chi viene castigato?». – «Papa ieri ha bestemmiato e Dio ha preso tutte le noci e ha messo dentro i sassi.». – «Io dico sempre anche un'altra cosa: ‘Dio vede tutto e tutto sa, perciò non si deve peccare.’ Io dico sempre anche questo.». Dopo il maggiore disse: «Ma, mamma, siamo andati nella stalla, dove è buio e Dio non ha visto cosa abbiamo fatto.». |
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ZangolaMiran guardava con interesse sua nonna che batteva il latte. La guardava e guardava e dopo disse: «Ma cosa stai facendo, nonna?». – «Batto il latte.». – «Si era comportato male?». – «No, lo batto per fare il burro.». Il bambino rimase zitto per un po' e dopo disse: «Ma nonna, se la mamma mi batterà, diventerò burro anch’io?». |
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Come ho iniziato a dedicarmi al collezionismoMatteo Balus racconta:
Ho iniziato a interessarmi ai reperti della prima guerra mondiale, quando avevo intorno ai dieci anni. Il primo oggetto della mia collezione era una baionetta che si trovava a casa nostra, nel fienile. Era tutta piena di ruggine e ho iniziato a pulirla. Durante le vacanze estive in Carnia noi ragazzi andavamo a cercare i proiettili nelle trincee. Durante la prima guerra mondiale i combattimenti avevano avuto luogo proprio in quei luoghi. Avevo una scatola in cui mettevo i reperti trovati. Anche a casa, nel fiume Idrija andavo a cercare proiettili, shrapnel e perfino elmi. A casa di mia nonna ho trovato anche una cassa militare per trasportare i fucili. Essa era stata portata a casa nostra da un luogo della zona di Kanaldal mio bisnonno. Egli, infatti, la trovava pratica. Mia nonna la custodiva nella stanza della soffitta e lausava per conservare noci, nocciole e fagioli.
Ho letto molti libri sulla prima guerra mondiale. M’interessa sapere come si chiamavano i vari oggetti, ma anche dove e come venivano usati. Frequento le fiere per collezionisti in Slovenia e anche quelle che si tengono più lontano, a Milano, a Firenze… Una volta sono stato anche in Belgio, inoccasione di unincontro di collezionisti. Alle fiere ho comprato molte cose belle. Ricordo ancora il mio primo acquisto: delle batterie per una radio austriaca per le quali ho speso 10 marchi. Adesso compro oggetti anche tramite internet. L’oggetto della mia collezione che preferisco è il biglietto identificativo su cui è ancora possibile leggere il nome del soldato: Anvisi Michele, regimento Bologna 40. |
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Fotografia delle donne con le zangoleJožica Strgar racconta: Tra il materiale documentario conservato nel museo, si trova anche una fotografia che mostra nove donne che si sono ribellate alla consegna obbligatoria delle zangole. Tra esse c’è anche Ema Laščak della Lukčeva hiša. La protesta fu un evento importante in un periodo in cui la popolazione non osava opporsi alle autorità.
Per ostacolare i profitti provenienti dalla vendita del burro, dopo il 1935, le autorità fasciste ordinarono che tutti i cerchioni di ottone delle zangole fossero consegnati. Dopo l’imposizione fu allargata anche alle zangole. La perdita di quest’attrezzo rappresentava un duro colpo per tutti i fattori. Alcune donne che erano venute da Kambreško e da altri villaggi per portare le zangole a Kanal s’incontrarono davanti al ponte di Kanal l’ultimo giorno prescritto per la consegna delle zangole. S’incoraggiarono a vicenda e iniziarono a battere con i mlǝtiči (le impugnature delle zangole), protestando animosamente. La gente però non si unì alla loro protesta, alcune persone addirittura le schernirono. Una delle donne non sentiva bene e quando il gendarme gridò e, per sbaglio, la urtò, essa, indignata, gli diede una spinta. La situazione precipitò e le donne sfruttarono il disordine a proprio vantaggio. Furono portate vie e interrogate. Nel tardo pomeriggio furono però rilasciate e poterono tornare alle proprie case, portando con sé le zangole. In questo modo esse, con il proprio coraggio, salvarono anche le zangole di tutti quelli che non le avevano ancora consegnate, alleviando le sofferenze di molti abitanti che pativano la carestia. In segno di rispetto ma anche nella consapevolezza che si trattasse di un fatto importante per la storia di questi luoghi, il fotografo Bavdaž di Kanal fotografò queste donne subito dopo il loro rilascio. |
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Stirare con le pagnotteUn’abitante del luogo racconta: Abbiamo messo le rasce (abiti plissé) su una cassa, le abbiamo aggiustate, dopo le abbiamo coperte con una tovaglia, oppure un lenzuolo. Abbiamo preso delle pagnotte appena sfornate e le abbiamo adagiate sugli abiti. Le pagnotte evaporavano, così che le gonne venivano stirate. Le pagnotte pesavano più di un chilo. Le abbiamo lasciate sugli abiti fino a quando non si erano raffreddate. Questo tipo di stiramento teneva a lungo. Con il ferro da stiro invece le baude (le balze) si sarebbero rovinate, perciò esso non veniva usato per le gonne. |
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Fabricazione degli zoccoli di RatečeL'abitante del luogo Jerca Oman racconta: Mio marito Jakob Oman, denominato Brancov Jok, era un falegname autodidatta. D'inverno, quando non c'era molto lavoro agricolo, gli piaceva lavorare il legno. Uno zio gli insegnò come fabbricare gli zoccoli di Rateče, poiché in pochi lo sapevano fare ancora. In passato le persone portavano questi zoccoli per tutto l'anno, d'inverno invece indossavano i žoki di Rateče. La parte inferiore era fatta con il legno di faggio, che veniva cotto sopra il vapore per essere curvato. La parte superiore era invece fatta dai vinchi di larice. Questi provenivano dalla zona sotto la Ponca. Il legno doveva essere duro, crescere piano e farsi picchettare senza problemi. Negli zoccoli più antichi i vinchi erano picchettati con le punte di legno, più tardi invece venivano incollati con la colla preparata dagli stessi artigiani. Gli zoccoli erano ricoperti con un po’ di feltro per essere più comodi. Ancora quarant’anni fa mio suocero li teneva dietro la stalla, amava indossarli, dato che egli era abituato a portarli da piccolo. Brancov Jok costruì veramente molti zoccoli di Rateče, persino per il gruppo folclorico di Rateče, ma anche molti abitanti del luogo volevano averne qualche paio come ricordo. Purtroppo quest'attività gli fu fatale,dato che si taglio l’aorta nell’inguine e morì. Questo successe nel 1984. Oggi sa fare gli zoccoli un abitante del luogo Pavel Kopavnik, che è più giovane e che trasmette questa conoscenza anche ad altri. |
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La moneta apePavel Levpušček racconta: Di tutte le monete italiane di Vittorio Emanuele III che venivano usate tra il 1900 e il 1943 ne mancano solo cinque o sei. È interessante la storia di come sono riuscito a ottenere un esemplare molto raro di dieci centesimi risalente al 1919 e con impressa l'immagine di un'ape. Ho saputo che il parroco di Lig Jože Kragelj ha questa moneta. Gli ho chiesto di darmela, ma egli non ha valuto. Essendo un veterinario, stavo sempre in giro, spesso anche a Lig. Ogni volta andavo anche nella canonica a chiedere: «Cosa dice l'ape?». Lui disse: «Sì, sì, è ancora a casa!». Gli dicevo sempre: «Non la perda!» e lui rispondeva: «No, no, non la perderò.». Dopo tre o quattro anni me la diede. Dopo molti anni è venuto a farmi visita e mi ha chiesto: «Hai ancora la mia ape?». Ho detto: «Sì, ma non mi lascerà mai! Ve la mostro?». Poi gli feci vedere tutti gli album e lui disse: «Bene, bene! Pensavo che ne farai un affare. Adesso vedo che l’ape è in buone mani!». |
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Oggetti per la celebrazione eucaristicaIvan Šavli racconta: Gli oggetti che preferisco sono una bottiglietta per l'acqua santa, un campanello, un piccolo candelabro e un piattino di metallo per l’eucaristia. Ho trovato tutto questo in una buca coperta di ortiche sul pascolo Mederje. Sicuramente appartenevano a un cappellano militare. Il legno decomposto e arsiccio che si trova lì intorno fa pensare che si trattassedei resti di una piccola cappella, oppure di uno spazio in cui dormiva il cappellano. Il ritrovamento di oggetti personali, oppure professionali dei soldati sono sempre un evento emozionante. Inizi a pensare alle sorti degli individui che la guerra portò via dai propri cari e che,contro la propria volontà,li ingoiò in un vortice spietato. |
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Una grande zavorra con anelloIvan Šavli racconta: Nella collezione si trova anche un oggetto di cui non so niente di preciso. Non so né di cosa si tratti né per cosa esso fosse adoperato. Se diamo spazio all’immaginazione, esso potrebbe essere legato alla storia che segue.
Una volta, tanto tempo fa, la valle tra Kobarid e Most na Soči era coperta d’acqua. Si trattava del lago di Livek. I morti venivano portati con le barche fino alla chiesa di san Lorenzo a Libušnje. Le persone anziane dicevano che lì, in un determinato punto, c’erano persino degli anelli per l’ormeggio delle barche. Sono andato a vedere, ma non ho trovano niente! Chi sa, forse l’oggetto misterioso era una grande e pesante zavorra con anello che serviva per l’ormeggio delle barche sul lago di Livek?! |
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Revolver bodeoZdravko Marcola racconta: Durante la prima guerra mondiale i soldati italiani usavano fermarsi la sera in una delle canove di Breginj per bere qualcosa. In quelle circostanze si toglievano i revolver e li mettevano sul davanzale. Questo fu notato dai ragazzini del luogo. Il fratello di mio nonno prese il revolver italiano bodeo e lo nascose in casa. La polizia militare italiana si occupò di questo furto ancora per alcuni giorni, ma gli adulti non sapevano niente e i ragazzini ovviamente tacevano. La storia divenne nota solo dopo la fine della guerra e gli abitanti del luogo se ne ricordavano spesso. Il revolver è rimasto in casa fino ai giorni nostri. Fa parte della collezione come un ricordo prezioso dei nostri antenati. |
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Il nonno soldato della milizia territoriale mondialeZdravko Mazora racconta:
Il mio bisnonno mi raccontò molto cose sulla prima guerra mondiale. Già nel 1915 era stato chiamato alle armi come črnovojnik, soldato della milizia territoriale austriaca. Prima della conquista italiana del Krn,su questa catena montuosa, le posizioni di tiro italiane e quelle austriache distavano solamente daisessanta fino agli ottanta metri. I soldati di entrambi gli eserciti potevano così parlare. Una volta, quando il mio bisnonno era venuto a fare la guardia, aveva vistoche il soldato italiano stavacercando i pidocchi e gli aveva detto in italiano, che conosceva bene, dato che abitava vicino al confine: «Ei, ciò, sono grosse? Sono grasse?».Il soldato gli aveva risposto: «Ma va, va, che le avete anche voi.». Il mio bisnonno mi disse:«Non è che ci sparavamo soltanto, soprattutto all'inizio della guerra. Dopo invece le cose diventarono disumane.». |
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KošpeValentin Mazora racconta:
Dopo la guerra tutto mancava ele scarpe erano perfino introvabili. Molte persone facevano da sole le košpe (scarpe ferrate con la suola di legno). In quel periodo io avevo nove anni e facevo il pastore. Camminavo scalzo. Quando sentivo freddo, mettevo i piedi nella vaccina calda per riscaldarli. Sul pascolo c’erano molte spine e carline e per questo avevo sempre i piedi pieni di spine. Il nonno mi fece le
košpe per poter andare con loro sui pascoli. Purtroppo erano troppo strette e mi stringevano, per questo le portavo più spesso appese sulle spalle che sui piedi e sono rimaste ben conservate fino a oggi. Mia moglie le ha buttate via due volte, ma per caso sono riuscito a salvarle in tempo e a riportarle a casa. Adesso sono custodite nella vetrina del museo come un prezioso ricordo di mio nonno. |
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Come ho iniziato a dedicarmi al collezionismoZoran Šuligoj racconta: M’interesso della storia della prima guerra mondiale da sempre e mi occupo di collezionismo quasi da tre decenni. Mi hanno fatto entusiasmare due amici che mi hanno portato con sé durante la ricerca di oggetti metallici destinati alla vendita. Quando mi sono munito di metal detector, gli oggetti della collezione si sono moltiplicati. La gran parte di essi è stata escavata da me – quello che trovi da solo, è tanto più prezioso, per questo motivo non compro mai niente. Hanno un valore particolare per me gli oggetti personali dei soldati, per esempio le piastre e le spille per le cinture. Nella collezione si trovano anche pipe, occhiali, oggetti per l’igiene personale come saponi, un pennello per la rasatura fatto di un bossolo e del pelo animale pettini… Ho trovato anche alcuni medicinali come compresse, ampolle, ancora piene, e il filo per cucire le ferite. Ho anche una gomma e una matita copiativa. Sono molto interessanti e belli gli oggetti decorativi e quelli ricordo che furono fatti a mano dai soldati, usando i resti delle granate, le cartucce e altri oggetti metallici: anelli, ciondoli, arnesi per scrivere, tra cui soprattutto penne, alcuni anche con il cappuccio, ma anche coltelli, fatti a mano, per aprire le lettere, pifferi, timbri. |
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Il copricapo di un soldato austriacoZoran Šuligoj racconta: Tra tutti gli oggetti che i collezionisti escavano dal terreno, sono molto rari i copricapi militari. Essi, essendo di tessuto, si decompongono velocemente. Il ritrovamento di un copricapo in un posto particolare come nella gavetta militare, un recipiente per i pasti, costituito da due parti,mi ha sorpreso. Il copricapo era ripiegato, ma per via dell’insegna FJI (Franc Josef I) ho capito subito di cosa si trattasse, anche se non mi aspettavo di trovare un contenuto del genere in una gavetta. |
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I ponti a Kanal Branko Drekonja racconta: A Kanal i motivi che più spesso sono usati per le cartoline, le fotografie e i quadri sono, per via della loro bellezza, l’antico borgo, il ponte, e l’Isonzo. Gli eventi turbolenti degli ultimi cent’anni sono documentati dalle cartoline della collezione, che partono dal 1898 fino ai giorni nostri. Prima della prima guerra mondiale sopra l’Isonzo c’era un ponte costruito nel 1816, dopo che il precedente era stato distrutto dai Francesi durante la loro ritirata nel 1813. Nel maggio del 1915, quando l’Italia annunciò guerra all’Austria-Ungheria, gli Austriaci si ritirarono sul lato sinistro dell’Isonzo, distruggendo il ponte di Kanal e quello ferroviario ad Ajba. Durante l’undicesima offensivanel 1917 a Kanal c’erano tanti ponti quanti a Venezia. Nell’agosto del 1917 gli Italiani attraversarono l’Isonzo sotto la casa denominata Petrucka su un ponte di barche. All’inizio del settembre del 1917 al posto del ponte di Kanal, che era stato distrutto, fu eretta una costruzione di acciaio. A nord fu costruito un ponte sospeso che era accessibile dalla cantina di una casa situata nella Kontrada. Nel giardino della canonica sarebbe stata costruita anche una costruzione d’acciaio. Gli Italiani eressero molti ponti con barche, oppure quelli sospesi, anche a nord e a sud di Kanal. Nell’ottobre del 1918, in occasione della rottura del fronte a Caporetto, gli Italiani distrussero di nuovo il ponte vicino alla chiesa, quello in prossimità della canonica restò invece in uso fino al 1920, quando il celebre ponte di Kanal fu nuovamente eretto. Fino all’inizio della ricostruzione le due sponde erano collegate da un ponte sospeso su cui i soldati italiani amavano farsi fotografare. Nel 1936 il ponte fu allargato e asfaltato. In quell’occasione la fontana di Nettuno fu spostata da difronte alla canonica sull’altra parte della strada. |
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Santino con l’immagine di Gesù BambinoMaria Čargo racconta: In passato c’era la convinzione che le cose sante non andassero buttate via, per questo motivo anche i santini (pilšči) venivano custoditi con cura. Marija Čargo ha aggiunto a quest’usanza la passione per il collezionismo. Sebbene la sua collezione consti di più di 17.000 santini, non le è difficile indicare, tra essi, il suo preferito. Si tratta del santino con l’immagine di Gesù Bambino nel presepe, che le fa venire in mente un giorno tragico della sua infanzia, quando aveva nove anni e frequentava la scuola delle suore a Gorizia. Quel giorno le hanno detto che suo padre era morto. Una suora le ha regato un santino, rincuorandola con queste parole: "Adesso Lui veglierà su di te''. Dopo un po' di tempo il santino è andato perso, il che le è dispiaciuto molto. Alcuni anni dopo però ha trovato un santino uguale. Adesso lo custodisce con cura in uno dei suoi numerosi album e può darli un'occhiata ogni qual volta desidera. |
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Il vino denominato ČuoljevoL’abitante del luogo Venčeslav Kragelj racconta: La famiglia Ipavec aveva molti terreni e molti vigneti. Il vino denominato Čuoljevo era molto rinomato e la loro cantina ne era sempre piena. Non si sa di che serie d’uva si trattasse, ma la gente la chiamava uva Čuoljevo. L'uva maturava in una grande tinozza di circa quindici ettolitri. Non si sa come fossero riusciti a portare la tinozza in cantina: forse l’avevano costruita lì, oppure avevanodovuto buttare giù un muro divisorio. L'uva denominata Čuoljevo, che cresce sulla pergola davanti alla casa Čuoljevi, rappresenta per Andrej Ipavec, il proprietario della casa, un ricordo dei propri antenati. In una delle botti viene invece custodito il vino che oggi ha più di quarant'anni. Esso può essere ancora bevuto ed è dolce come il liquore. L'ultimo vino fu probabilmente prodotto da Pepi (nato nel 1906), il figlio minore di Katarina e Ivan, che avevano avuto quattro figli. Ivan, il bisnonno del proprietario della collezione, era stato sindaco del comune di Ročinj tra gli anni 1902 e 1906. |
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Gobo Santo, raccoglitore di resti metallici della prima guerra mondialeIvo Krajnik racconta: Gobo Santo era originario del Friuli. Dopo la fine della prima guerra mondiale, durante la quale combatté al servizio dell’esercito italiano sul fronte dell’Isonzo, ritornò nella zona di Kobarid. Egli manteneva la propria famiglia con grande difficoltà poiché andava raccogliendo i resti metallici della prima guerra mondiale, il che forniva un sostentamento molto modesto. Su di lui si raccontano ancora oggi molti aneddoti. Uno di questi è il seguente. Un giorno egli decise che era stufo di vivere. La sera si sdraiò sul parapetto del ponte di Napoleone a Kobarid. Era ancora più ubriaco del solito. Pensava che sarebbe caduto dal ponte durante il sonno e sarebbe morto senza soffrire nell’impetuoso fiume Isonzo, ma la mattina si svegliò sulla strada con una forte sbronza. Egli, infatti, era caduto sul lato sbagliato.
Sebbene Gobo fosse un abitante del luogo un po’ stravagante, i suoi consigli per cercare reperti e quelli legati alla sicurezza durante queste ricerche erano molto utili e gli abitanti del luogo li adoperano ancora oggi. Egli viene ricordato dagli abitanti di Kobarid come il simbolo delle sofferenze dei soldati e della vita difficile che li aspettava dopo la guerra, su una terra devastata. Il proprietario della collezione Ivo Krajnik ha detto che per questo motivo la collezione "La ritirata di Caporetto 1917 " è dedicata anche a lui. |
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Scultura del soldato austriacoFranc Jerončič racconta: La scultura del soldato in grandezza naturale è stata fatta secondo una foto del generale Radetzki, che guidò l'esercito austriaco intorno al 1856, durante la ritirata di circa 30.000 soldati da Milano. La costruzione della statua è durata circa tre mesi. Essa è dedicata ai soldati sloveni che erano nell'esercito austriaco. Solo nel 1848 l'imperatore Francesco Giuseppe aveva salutato i soldati del 27° regimento di Ljubljana in sloveno! Nell'esercito austriaco c’erano anche abitanti della nostra zona, tra cui anche un certo Miha Kralj di Lig che era stato così valoroso da essere decorato. Già una settimana prima nella chiesa di Marija Cel (Marijino Celje) era stato annunciato che in questa circostanza sarebbe arrivato anche il sindaco di Kanal con i gendarmi. E così un giorno, intorno al 1880, dopo la santa messa, il sindaco parlò ai presenti. Egli disse che Miha Kralj era un bravo e meritevole soldato che aveva ucciso un determinato numero di nemici e che per questo riceveva la decorazione al valor militare. Alla gente però il fatto di uccidere esseri umani sembrava una brutta cosa e una donna del villaggio di Zapotok gridò: "È stupido quello che dà una decorazione del genere e ancor più stupido quello che la riceve!" La donna fu mandata in carcere. |
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ČelebonFranc Jerončič racconta: Čelebon è un attrezzo per essiccare le nocciole e le noci. In questi luoghi ne aveva uno ogni bambino: appena iniziò a camminare, glielo regalavano i genitori, i vicini, oppure lo ricevette per la festa di S. Nicola. Il celebon che fa parte della mia collezione è stato fatto da me: i cerchi sono di nocciola, l’intreccio invece di vitalbino. Esso, tutto pieno, veniva appeso in alto per essere tenuto lontano dai topi. Ogni casa aveva vari piccoli čeleboni. Un uomo di Melinki ne aveva uno molto grande. La sua terra era molto lontana, a Kostanjevica, e ci metteva un mese per raccogliere le noci. Quando finì, dovette venire l'intero villaggio per portare quel grande čelebon a casa sua. Esso non poteva essere portato attraverso nessuna porta, così era grande. Quest'uomo si chiamava Andrej Žnidarčič. Io me lo ricordo ancora bene, non ho, però, mai visto il suo čelebon perché questo succedeva molto tempo prima. |
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Riproduzione dell'incisione su rame BeethovenJože Gorjanc racconta:
Una volta le case non avevano le piastre di cemento armato e tutte le soffitte erano di legno. Negli anni Settanta e Ottanta del Novecento molte persone, qui intorno, rinnovarono le proprie case. In quelle occasioni le soffitte furono ripulite e molte cose vecchie buttate via. Per questo motive le discariche furono un vero paradiso per noi collezionisti. La maggior parte dei collezionisti arrivava dall'Italia. Anch'io ho trovato molti oggetti interessanti e antichi nelle discariche. Una volta sono rimasto particolarmente colpito d'una fotografia incorniciata. Essa non era niente di speciale. Si trattava di un messaggio promozionale per un marchio di pasta. Il vetro era rotto, la cornice sembrava però particolare. Per questo motivo l'ho portata a casa, dove ho tolto i cocci e il messaggio promozionale. Sotto ho scoperto, con grande stupore, una riproduzione in bianco e nero, che da una parte erastata perforata da una flovrca (fucile ad aria compressa). L'immagine mostra cinque persone che si trovano in un salone e ascoltano un uomo che suona il violino e un altro che suona il pianoforte. Sotto si trova la scritta Beethoven, a sinistra invece c’era un’annotazione con la menzione dell’anno 1901. Con l'aiuto di alcuni amici ho scoperto che si trattasse, probabilmente, di una riproduzione di Lionella Balestieri, che aveva dipinto il quadro nel 1900. L'originale è custodito nel Museo Revoltella di Trieste. Secondo quest’immagine, nel 1901,L. Arndt feceun’incisione in rame, imprimitura per la riproduzione in bianco e nero. Le incisioni furono stampate dalla ditta Rich.Bong di Berlino. |
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La baraJože Mertelj racconta: Mio zio costruiva mobili e anche bare. Egli fabbricò una bara anche per se stesso, assieme alla ferratura, che era una decorazione di carta che veniva poi dorata, oppure coperta di bronzo. Egli disse: "Quando morirò, tutto sarà pronto, devono solo mettere la ferratura e colorarla." Anche mio padre costruì per sé una bara. Mia madre mi ha racconto che egli si era disteso in essa per capire se era abbastanza grande. Né mio zio né mio padre furono però sepolti in queste bare, a entrambi comprarono bare nuove, più belle. Perché? Quando la morte viene, non c'è abbastanza tempo da poter colorare la ferratura. Inoltre, decisero di fare così anche per prevenire che la gente andasse dicendo che essi dovettero costruirsi persino la bara. |
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I blumarjiGiuseppe Specogna racconta: A Montefosca c'è un antico costume carnevalesco: i blumarji. Essi chiamano la primavera. Il loro numero deve essere dispari, sette, nove, undici… In passato i blumarji potevano essere solo i ragazzi celibi. Oggi in paese sono rimaste poche persone, perciò partecipano a questo costume anche gli uomini sposati. Le ragazze vi parteciparono solo durante la seconda guerra mondiale, giacché in paese non c’erano uomini. Quando ero giovane, anch’io facevo il blumar. Ho partecipato a questa iniziativa per ben dieci anni consecutivi. Vestivamo una camicia e dei pantaloni bianchi e i calzini di lana. Sui piedi mettevamo delle žeke (pantofole) nere, cucite a mano. Sulla testa mettevamo un copricapo colorato in modo particolare. Oggi sa fare questo tipo di copricapo solo un abitante del luogo. Dietro, sulla cintura, erano legati tre campanacci usati abitualmente per le mucche. Saltellando energicamente essi emettevano un bel suono. Questo però non era facile, poiché, dopo, le nostre schiere erano tutte spellate. Con una mano si teneva invece il pǝštok, un bastone con cui si evitava di cadere sul giacchio e sulla neve. Dovevamo girare intorno al nostro paese e intorno a quello vicino tante volte quante persone c’erano in essi. Il tutto durava tre giorni. Non entravamo nelle case, ci fermavamo solo davanti alle abitazioni per bere un caffe, un bicchiere di acquavite o del vino. Le altre maschere, maschere belle (te lepe), andavano invece per le case e raccoglievano uova, formaggio e salame. Queste maschere erano accompagnate da un suonatore. Alla fine con le uova, lo zucchero e il vino si facevano dei secchi di zabaione e si mangiava e beveva tutto. |
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Cartolina d’AntroMarina Cernetig racconta:
Un giorno, visitando il mercatino dell’usato a Cividale del Friuli, mi sono imbattuta in una bancarella con delle cartoline. Ho dato un’occhiata e ho notato una cartolina mandata da Antro. L’ho guardata bene e ho notato che la grafia mi sembrava familiare. Ho guardato meglio e mi sono accorta di averla scritta io durante la mia prima visita della Grotta di San Giovanni d’Antro. Eravamo andati a fare una gita da Stregna fino alla Valle del Natisone. Oggi questa gita non sembra niente di speciale, ma nel 1974 era una grande cosa. Ovviamente ho comprato la cartolina, che è diventata il primo oggetto della mia collezione, arricchitasi in seguito con documenti familiari e di altro genere.
Un altro aspetto della collezione è legato alla Kravarščakova hiša. Quando si preparava la demolizione nel paese di Presserie, abbiamo salvato, con alcuni amici , quasi all’ultimo momento alcuni documenti e oggetti antichi che si erano conservati e che oggi attendono di essere esposti. |